Una storia al limite del verosimile, forse quasi incredibile, ma così unica da essere tutt’oggi immacolata, la storia degli Autonauti. Era il 1999 e i fratelli Marco, Mauro e Fabio Amoretti, in compagnia di Marcolino De Candia, sfidarono l’oceano Atlantico con una Volkswagen Passat dell’87 e una Ford Taunus dell’81. Dalle Canarie ai Caraibi in macchina, una vicenda senza eguali, e che ogni tanto merita, indubbiamente, una rispolverata.
Autonauti 1999: quando l’atlantico si navigava in macchina
“In mare avevamo paura della profondità, ma il mondo che ci eravamo creati era il nostro mondo, e dovevamo affrontare soltanto i nostri giudizi. Ora dobbiamo rimetterci a confronto, tutti i giorni, con le aspettative degli altri. E a prima vista, a parte la felicità di rivedere le nostre famiglie, il mondo di terra non è poi un granchè.”
(Marco De Candia, Il Secolo XIX, 13 ottobre 1999)
Autonauti 1999: un’avventura senza precedenti
Estratto da un articolo de Il Giornale della Vela, Aprile 2010.
Quattro ragazzi, una Volkswagen Passat dell’87 e una Ford Taunus dell’81, un’incredibile vicenda familiare alle spalle, l’oceano. È la storia dei fratelli Marco, Mauro e Fabio Amoretti che, in compagnia di Marcolino De Candia, si sono lanciati in un’avventura senza precedenti percorrendo, a bordo delle due auto riempite di poliuretano espanso, il tratto di mare tra La Palma (la Isla Bonita delle Canarie) e la Martinica. Una storia dimenticata, non compresa a fondo dalla stampa e dai media di 10 anni fa [23 anni oggi, ndr.], che si preoccuparono di presentare l’impresa come una moderna Odissea, tra squali, balene e uragani.
I fratelli Amoretti sono figli di Giorgio, fotoreporter, una personalità fuori dagli schemi: provocatore, strenuo difensore di cause, spirito libero. Giorgio tentò nel 1978 la traversata oceanica a bordo di quella che lui chiamava “Automare”, un maggiolino Volkswagen pieno di polistirolo, ma fu subito fermato dalle autorità spagnole. Nel 1999, gli viene diagnosticato un tumore maligno. I tre figli e Marcolino, caro amico di famiglia, si mettono a lavorare sodo. Giorgio potrebbe avere i giorni contati e i ragazzi vogliono regalargli un sogno: attraversare a bordo di due “Automare” l’Atlantico, assieme a loro. Ma Giorgio si rivela troppo debole per partecipare all’impresa. È il 4 maggio del ‘99, i primi raggi del sole illuminano l’ossidiana lucida di La Palma: quattro curiosi individui, dopo aver riempito Passat e Taunus di polistirolo, viveri, strumentazione, e averle dotate di una zattera di salvataggio sul tetto, varano queste altrettanto curiose imbarcazioni.
È l’alba, momento scelto dagli autonauti per evitare la Guardia Civìl. Le auto proseguono sospinte da due fuoribordo finché non finisce la benzina. I ragazzi non ci pensano due volte: staccano i motori e li guardano sparire negli abissi dell’oceano.
Il “motore” da adesso dovrebbe essere un paracadute ascensionale (un altro dei pallini di Amoretti senior), ma il vento instabile e leggero dei primi giorni di autonavigazione lo rende inutilizzabile. Molto meglio un paio di vele, rimediate da chissà quale circolo del levante ligure, montate alla carlona sul tetto delle auto da Marcolino De Candia. Le due macchine finiscono per ricordare, seppur vagamente, il gommone a vela Zodiac “Hérétique”, su cui il fisico francese Alain Bombard compì una traversata in solitario dalle Canarie alle Barbados, bevendo quantità controllate di acqua e succo di pesce da lui catturato. Un naufrago volontario, in quel lontano 1952, per dimostrare la teoria secondo cui dopo un naufragio si muore più per disperazione che per stenti. Intanto, dopo 10 giorni di brezzoline, le correnti mantengono gli autonauti a poche miglia dalle coste spagnole, facendoli girare in tondo.
Fabio e Mauro decidono di gettare la spugna il 14 maggio. Mal di mare, morale sotto le scarpe e forse la consapevolezza di trovarsi in un ambiente a loro alieno: vengono portati a terra dall’elisoccorso di Tenerife. Marco e Marcolino invece, a bordo di una macchina sull’oceano, si trovano benissimo. In mare sono liberi, privi dai condizionamenti di una società sempre più competitiva e materialista, una società in cui hanno sempre faticato a riconoscersi. Tutto bene fino al 25 maggio, quando saltano i contatti con la terraferma. Il telefono satellitare Imarsat si spegne, forse per il contatto con l’acqua (“imbarchiamo acqua dal sedile davanti!” scrive Amoretti sul diario di bordo), o per la mancanza di sole, che alimenta le batterie fotovoltaiche (solo energia pulita a “bordo”). I due paiono scomparsi nel nulla. Marco Amoretti, 23 anni, e Marco De Candia, 21, potrebbero aver fatto una brutta fine.
“Silenzio dall’Atlantico”, titola il Secolo XIX, e tutta Sarzana (dove si sono stabiliti gli Amoretti) si ritrova in subbuglio. In realtà i ragazzi se la passano alla grande, sono in perfetta sintonia. Marco scrive, Marcolino medita. Nel frattempo, il 28 maggio, Giorgio Amoretti muore, e quando il 5 luglio l’Imarsat riprende a funzionare, Serenella Vianello (madre di Marco e Mauro, seconda compagna di Giorgio) decide di non dire nulla a Marco, timorosa che la notizia possa causargli un duro colpo psicologico. Le macchine si rivelano mezzi relativamente sicuri, Nettuno è magnanimo e le depressioni oceaniche (tra cui l’uragano Emily) risparmiano i ragazzi. Urge un altro parallelo con Alain Bombard, che dopo 53 giorni di navigazione incrociò la nave inglese Arakaka: Amoretti e De Candia incontrano per puro caso la petroliera Chevron Atlantic, il cui comandante si dimostra generoso e lancia in mare numerose provviste recuperate da Marco a nuoto.
Sono al 108° giorno di oceano e l’avvistamento della nave lascia intendere che la terra è vicina. Nel frattempo, Fabio, Mauro e Serenella sono giunti nelle Antille per organizzare l’arrivo delle auto. Sorvolano il tratto di mare antistante la Martinica portando con loro i giornalisti increduli: i due folli danteschi ce la stanno facendo, sono ad un passo dal traguardo. In un contatto radio, Serenella decide di rivelare a Marco la morte del padre, per evitare al ragazzo una terribile delusione a terra. Arrivati a Port Tartane il 31 agosto, dopo 119 giorni in mare, gli autonauti vengono accolti come eroi dai media italiani ed esteri. Poi, il buio. Troppe cose non piacevano.
Troppe cose scomode da ammettere: era possibile attraversare l’Oceano quasi per gioco, con delle macchine sgangherate. Erano riusciti a farlo due ragazzi totalmente estranei al mondo della vela solitaria, privi di conoscenze nautiche, mezzi tecnici e sponsor, peraltro poco dopo la vittoria di Giovanni Soldini alla Around Alone. La stampa locale ligure fu l’unica a giocare su questo contrasto tra modi antitetici di vivere il mare, perché sia Soldini che gli Amoretti erano legati a Sarzana. Oggi, a più di una decina di anni di distanza [23 anni oggi, ndr.], le immagini dell’insolito viaggio continuano ad emozionare. Se dopo due lustri possiamo già essere considerati posteri, allora sì, fu vera gloria.
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2 commenti su “Autonauti 1999, così due auto attraversarono l’Atlantico”
…ma vogliamo davvero credere ancora alla “scoperta” di Cristobal Colon?
Un impresa pura, realizzata PER una persona malata, un esploratore di sogni.
È andato tutto bene, sono stati senza comunicare però sempre salvi, hanno avuto cibo, corrente elettrica, acqua. Hanno avuto i mezzi per orientarsi e le vele, erano competenti perché hanno saputoantenere la rotta, recuperare le cime quando le due auto mare si scollegavano; hanno conservato la lucidità danzando tra le onde, meditando, ricevendo i messaggi del mondo marino.
Già sin qui, ed è solo una parte ..un avventura umanamente ricca, luminosa, pulita; della quale Voi state parlando bene e cin rispetto. E che belle le foto!
Che dire: il mare non è per tutti, la Visione resta tale senza i grandissimi numeri della condiVisione, che moltiplica ma non è detto intensifichi i contenuti.